PARETI NORD

Racconti&Poesie

 

Al corso di alpinismo del Cai di Monza (nell'autunno del 1972) la lezione di ghiaccio era naturalmente prevista, ma si risolse in un nulla di fatto. L'epoca era un po' anomala (in pochi si avventurano su una nord ai primi di ottobre), ma, come ci avevano detto gli istruttori, così avremmo di certo trovato ghiaccio vivo e la lezione avrebbe avuto più valore. In realtà non riuscimmo nemmeno a raggiungere il rifugio Porro (la meta era la facile nord del Pizzo Cassandra, nel gruppo del Disgrazia). A Chiareggio arrivammo che già volgeva al brutto; nevicò tutta notte e al mattino tornammo a Lecco per recuperare la giornata sui torrioni della Grigna. Per me e Adriano quel ritorno fu tragicomico: il vento era riuscito a far scendere un vetro della vecchia Seicento che Don Ambrogio ci aveva prestato e la macchina si era riempita di neve. Arrivammo a Lecco completamente gelati e quel giorno, almeno per me, arrampicare non fu il massimo.

            Per alcuni anni piccozza e ramponi mi servirono poco: qualche via normale o poco più, qualche salita in inverno lungo i canali innevati della Grignetta. Poi finalmente venne la volta di una nord, di una vera parete ghiacciata, quella del Ciarforon, non troppo difficile e assai frequentata per la sua vicinanza al rifugio Vittorio Emanuele. La decisione di salirla è stata certo la meno meditata tra tutte quelle che ho preso. Un venerdì sera mi telefona Bruno, un amico con cui non avevo mai arrampicato, e mi invita ad andare con lui e altri amici, tutti appena usciti da un corso di alpinismo, a salire quella parete per la via classica. Al momento gli rispondo di no, poi ci ripenso e lo richiamo per dirgli che sarei stato della partita. Passerò il resto della serata a cercare un martello da ghiaccio (non l'avevo ancora comprato) e a convincere Adriano, con cui facevo cordata pressoché fissa da otto anni, perché venisse anche lui. Solo dopo mezzanotte è tutto sistemato e il giorno dopo siamo in viaggio alla volta della Valsavarenche.

             Eravamo su di giri e un po' in confusione perché l'appuntamento con quella salita, tacitamente sognato forse da tempo, stava per divenire realtà, così riuscimmo anche a sbagliare il percorso sull'autostrada e a perdere un sacco di tempo. Quando arriviamo a Pont facciamo persino fatica a parcheggiare la macchina e intanto osserviamo la variopinta processione degli alpinisti che sta salendo verso il rifugio. Capiamo subito che la cuccetta è persa; di fatto perderemo anche i materassi e le coperte di riserva e passeremo la notte sul nudo pavimento della sala da pranzo, insieme a un sacco di altra gente, senza chiudere occhio a causa del caldo soffocante e degli sgradevoli profumi che, a folate, giungevano dalla cucina. Oggi pare che i regolamenti non permettano più queste cose. Una volta invece era normale e non so quante notti ho passato in questo modo assurdo, rimediandoci ogni volta dei mal di testa feroci che per fortuna l'aria frizzante del mattino riusciva a farmi passare.

            Accadde così anche quella volta, quando, ai primi chiarori del giorno, iniziammo a risalire la  morena e poi il ghiacciaio verso la nostra montagna. Affrontammo la parete nel modo più facile, andando a prendere le tracce profonde delle numerose cordate che ci precedevano. L'esperienza che io e Adriano avevamo alle spalle non era certo gran cosa: alcune vie normali, anche molto belle (al Monte Bianco dall'Aiguille de Gouter, al Gran Paradiso, al Disgrazia e al Bernina), e due facili salite altrettanto belle ma assai meno note (le avevamo percorse in perfetta solitudine): la traversata Galisia-Bousson-Basei dalla Valle dell'Orco e la cresta nord della Becca Rayette in Valpelline. Confrontata con quelle salite, quella su cui eravamo impegnati sembrava richiedere attenzione e sicurezza; mentre le altre cordate ci sorpassavano veloci, noi salivamo di tiro in tiro, facendo le nostre brave sicure sulla piccozza saldamente piantata nella neve dura. Il canalino all'altezza del seracco ci propose la sorpresa di una ventina di metri di ghiaccio vivo: grazie al martello da ghiaccio e ai piccoli gradini scavati da chi ci precedeva ne uscimmo dignitosamente e ci lanciammo, con lo spirito ormai alle stelle, lungo l'ultimo e più ripido tratto della parete, quello più bello, che adduce alla vasta calotta della cima. Anche se la vetta del Ciarforon non è delle più esaltanti (nella sua guida, Chabod dice che può manovrarci un intero battaglione), arrivarci fu bellissimo. Come si dice: eravamo tutti quanti stanchi ma soddisfatti. La nostra prima vera parete nord era nel sacco!

            Nella storia di tutti gli alpinisti forti, dopo la gioia della prima salita scatta un meccanismo che spinge ad impegnarsi su vie di difficoltà sempre maggiore. Che io non appartengo alla categoria degli alpinisti forti si vede anche da questo: in me quel meccanismo non è scattato. Dopo la salita al Ciarforon ho continuato a percorrere itinerari di media difficoltà, magari anche più facili di quello appena superato: le nord della Tsanteleina e della Becca di Monciair, per esempio, le creste della Grande Aiguille Rousse e dell'Aiguille de Rochefort, la traversata, peraltro un po' avventurosa, delle Aiguilles de Trélatête.    

            In realtà la difficoltà in se stessa non mi ha mai veramente interessato; in montagna ho spesso cercato soddisfazioni più intime e più complesse, quelle che possono derivare, ad esempio, dalla salita di vie un po' appartate, poco conosciute, in ambienti solitari e fuori dal solito giro delle classiche da non perdere. Certo, anche a me ha dato e dà piacere il fatto di affrontare e superare itinerari di difficoltà più elevata: in ognuno di noi c'è una dose di amor proprio e di orgoglio che chiede di essere soddisfatta. Così come è bello, quando ci si trova tra alpinisti, parlare di salite conosciute e poter dire di averle fatte, di aver trovato certe condizioni, di averci impiegato, magari, poche ore rispetto alla norma. Eppure mi pare più profondo il piacere di poter dire a se stessi: "ho percorso quell'itinerario che avevo immaginato possibile, di cui ho cercato notizie sulle fittissime pagine delle guide dei Monti d'Italia o sulle riviste di alpinismo, che a me piaceva nonostante fosse ignorato da tutti perché non ha un nome famoso e altisonante". Allora, certo con un eccesso di presunzione, io e Adriano (col quale ho condiviso tanti anni di amicizia, non solo in cordata, prima che un incidente se lo portasse via mentre scendeva dal Becco di Valsoera) chiamavamo "alpinismo di ricerca" quel nostro modo di vivere la montagna; adesso non do più nomi altisonanti alle cose che faccio, ma quello spirito è ancora in me e mi piace vagare in mezzo a montagne povere e dimenticate, dormendo in bivacchi o rifugi isolati, spesso nella più beata solitudine.

            In quegli anni una salita di questo tipo fu quella sulla parete nord della Cima di Piazzi, in alta Valtellina. L'idea di salirla era nata dentro di me, dai miei ricordi, e non dalla lettura di uno di quei volumi di salite scelte che, pur essendo comodissimi (li compro anch'io), corrono il rischio di sostituirsi alla nostra fantasia, indirizzando tutti a ripetere le stesse salite, ignorando ciò che sta intorno o altrove. Quello della Cima di Piazzi era un nome che avevo in testa da tempo, associato al ricordo e alla prima impressione che aveva generato in me apparendomi quasi di sfuggita, resa più alta e maestosa dalle nubi che la circondavano, mentre salivo in macchina da Bormio a Livigno non so più in quale occasione.

            Un pomeriggio di luglio ci troviamo così ad arrancare la 127 di Adriano su per la strada sterrata che risale la Val Lia fino alla Malga Borron; la carrareccia era adatta a jeep e trattori e in certi punti si impennava tanto da rendere problematico il procedere. Tiziano, secondo cui "si va in macchina fin dove si può", mi trascina fuori dalla macchina, incitandomi a spingere e sgolandosi inutilmente per spiegare ad Adriano come regolarsi con acceleratore e freno. Per un po' ingoiamo polvere e gas di scarico, poi Tiziano deve arrendersi all'evidenza e procediamo a piedi, con tutto vantaggio del fisico e, soprattutto, dello spirito che può finalmente lasciarsi andare all'incanto di una giornata stupenda. L'aria è un cristallo purissimo e la Cima di Piazzi svetta bianchissima contro l'azzurro intenso del cielo e sopra il verde smeraldo della pineta.

            Non ci sono processioni di alpinisti e quando giungiamo al bivacco, nella luce del tramonto che indora la parete ormai vicina, scopriamo di essere soli. Molto più tardi arriveranno quattro ragazzi, ma sono venuti fin quassù solo per passare una notte un po' diversa dal solito. La montagna è tutta  per noi.

            Al mattino lasciamo il bivacco solo in due perché Tiziano è stato male durante la notte e non se la sente di affrontare la salita. L'alba è da sogno, con i seracchi che si illuminano a poco a poco di rosa mentre noi cerchiamo di guadagnare la conca del ghiacciaio sotto la parete risalendo le rocce disgregate dello sperone su cui sorge il bivacco. La crepaccia terminale sembra non volerci causare grossi problemi, ma la neve che la chiude è poco consistente e Adriano deve farsi leggero leggero per superarla senza sfondare. Sul tiro successivo, procedendo più deciso perché convinto di essere fuori da ogni pericolo, mi ritroverò immerso nella neve fino alla cintola, con le gambe che penzolano in un crepaccio. Andiamo avanti con cautela, finché non giungiamo su un terreno decisamente sicuro. Ora dobbiamo affrontare il tratto più impegnativo della salita: lo scivolo ghiacciato tra il grande seracco a sinistra e quelli meno imponenti a destra della via. Per la prima volta dobbiamo attrezzare due soste piantando i chiodi da ghiaccio e scavando un gradino con la piccozza. Il sole non si fa ancora vedere e il freddo intenso ci morde i piedi: ci sentiamo davvero su una parete nord. Ma le difficoltà finiscono presto e lo scivolo finale, come una candida scala verso il cielo, ci offre una salita bellissima. Il sole disegna fantastici arcobaleni tra le nubi leggere che accarezzano correndo la montagna; i cristalli di neve diffondono intorno i colori dell'iride; lontano, molto più in basso, si stende il verde tappeto della valle. In cima ci abbracciamo felici, mentre per un attimo le nubi ci avvolgono nel loro gioco di infinite variazioni.

            Nei due anni successivi combinammo pochissimo, almeno in fatto di salite su ghiaccio. Poi, improvviso, scattò in me e nei miei amici quel meccanismo naturale che forse stava solo covando sotto la cenere: volevamo salire qualche grande parete davvero, bella e magari carica di storia. Carlo era il più determinato. Non perdeva occasione per ribadire il concetto: dovevamo porci degli obiettivi e realizzarli, senza fare come negli anni precedenti, quando le chiacchiere dell'inverno stentavano a tradursi in realtà durante l'estate. Eravamo tutti d'accordo: l'estate del 1984 sarebbe stata davvero l'estate delle grandi nord.

            A incrinare l'entusiasmo che ci animava si presentò un maggio inclemente e piovoso: fu un maggio storico, che avrebbe battuto il record dei ventun giorni di pioggia detenuto, fino ad allora, dal maggio del 1905. In alta montagna nevicava copiosamente e a metà giugno i rifugi più alti erano ancora chiusi. Le telefonate con cui cercavamo di informarci sulle condizioni delle pareti erano tutte scoraggianti: neve molle, è meglio aspettare. Intanto si assottigliava anche il nostro gruppetto di amici: Adelio avrebbe trascorso il mese di luglio in una campagna di rilievi per la tesi di laurea in geologia; Tiziano era passato ad una nuova teoria ("in macchina fino a venti minuti dall'attacco") adatta alle falesie di fondovalle, ma incompatibile con le grandi montagne occidentali; Adriano si romperà malamente un dito della mano sulla via Taveggia al Medale. La grande stagione sembrava dover morire ancor prima di nascere, ma non sarà così: all'inizio di luglio, io e Carlo imbrocchiamo la combinazione giusta, un fine settimana di bel tempo e una montagna in buone condizioni, e possiamo partire. La nostra meta è la parete nord della Ciamarella.

            Anche questa montagna aveva lasciato in me un ricordo particolare: diversi anni prima avevamo salito la sua via normale e, sbucando sulla cresta sommitale, eravamo rimasti fortemente impressionati dalla progressione di una cordata francese lungo quel muro bianchissimo, che allora ci pareva incredibilmente ripido. Ora l'esperienza aveva ridimensionato quell'impressione e le pareti ghiacciate ci erano divenute più familiari. La voglia di salire quella parete poteva riaffiorare dentro di me con la certezza di divenire un'esperienza concreta e possibile.

            Anche la nostra attrezzatura era migliorata. Quattro anni prima, sulla nord del Ciarforon, io e  Adriano sembravamo usciti da un libro di storia dell'alpinismo. La piccozza aveva il manico di legno e, soprattutto, una becca lunga e perfettamente diritta; il martello da ghiaccio che avevamo rimediato all'ultimo momento era ancora dei primi modelli; i ramponi avevano sì dodici punte, ma le due anteriori, molto corte, erano inclinate in avanti per cui, comodissime per il terreno misto, nella progressione frontale finivano per rimbalzare contro la superficie del ghiaccio. Da allora avevo cambiato praticamente tutto, sostituendo anche il martello con un più efficace martello-piccozza, e così, anche da questo punto di vista, mi sentivo più sicuro. Devo dire che poi, anche se sono passati ancora parecchi anni, non abbiamo cambiato più nulla, nonostante l'evoluzione della tecnica e dei materiali. Adesso però non mi sento più un marziano: anche se ormai dilagano piccozze cortissime, dalle forme sempre più ardite, con le becche a banana o tubolari, credo che su certe vie siano un'esagerazione. Ho letto da qualche parte che salire sulle vie classiche con due attrezzi, in piolet-traction, è come salire in artificiale una via di media difficoltà. Salire quelle stesse vie con l'attrezzatura per il ghiaccio verticale cos'è allora? Nelle ultime salite ho cercato di lasciare appeso allo zaino il martello-piccozza, di recuperare qualcosa del vecchio stile. Forse è più giusto così.

            Quella che ci vedeva impegnati a risalire il Vallone di Sea verso il Bivacco Soardi era davvero una bella giornata di luglio: il vallone è solitario e selvaggio, cosparso di grandi massi precipitati dalle ripide pareti che si alzano dal fondovalle con le grandi placconate che proprio in quegli anni vedevano uno straordinario sviluppo dell'arrampicata su falesia. Si guadagna quota molto lentamente, camminando lungo un bel sentiero ora a destra ora a sinistra del torrente.

            Al bivacco arriviamo infreddoliti dal vento e con la triste sorpresa di ritrovarci in quattordici con sei posti sulle brandine: in due decidono di proseguire per bivaccare nei sacchi a pelo più vicino alla base della parete, altri due hanno la tendina, ma in dieci dovremo arrangiarci alla meglio. Prendendo il discorso alla larga, incomincio a raccontare un episodio analogo di qualche anno prima, quando ci eravamo sistemati in undici nel Bivacco Regondi al Mont Gelé dormendo anche in due per branda. Il silenzio che segue l'implicita proposta è eloquentissimo. Gli ultimi devono adattarsi a dormire sul pavimento e i primi non rinunciano assolutamente al diritto che hanno guadagnato sui sei posti letto a disposizione. Le cose non sarebbero andate nemmeno malissimo se ad un certo punto un pimpante cinquantenne solitario non avesse bussato alla porta del bivacco, scusandosi per l'ora, ma reclamando tacitamente il suo diritto a non morire assiderato di fuori: sarà impossibile chiudere occhio, ma per fortuna dobbiamo attendere solo fino alle due.

            Le pareti in genere e quelle di ghiaccio in particolare generano una diversa impressione a seconda della prospettiva in cui le si guarda. La vista frontale dal basso è la più impressionante, perché anche un pendio di 50° appare come una muraglia ripidissima e ributtante; visti lateralmente, gli stessi 50° si dimostrano molto più mansueti; dall'alto sono affascinanti, ma prima bisogna averli superati. A noi che sbuchiamo sul pianoro superiore del ghiacciaio Tonini, nella luce un po' grigia che precede l'alba, la parete nord della Ciamarella si presenta proprio di fronte e per di più con molto ghiaccio scoperto. Io e Carlo proviamo un momento di emozione profonda, ma poi puntiamo decisi all'attacco: in fondo è proprio una parete così, ripida e ghiacciata, che siamo venuti a cercare fin qui, non un lenzuolo di neve molle dove affondare tutto lo scarpone come invece ci era capitato le ultime volte. Tutti gli altri, a parte una cordata che ha già attaccato il pendio, sarà stato per il ghiaccio o per l'impressione di quella vista frontale, tornano sui propri passi, ripiegando sulla facile Punta Tonini.

            La salita è veramente bella. Dopo aver superato senza problemi la crepaccia terminale e un primo tiro sul ghiaccio, incontriamo neve dura e consistente; mentre il sole incomincia ad accarezzare la superficie ghiacciata, saliamo veloci, di conserva, prestando solo attenzione alle folate di vento, ancora molto forte, che ci costringono talvolta ad appiattirci contro la neve per non perdere l'equilibrio. In alto, dove la via si impenna fino a 60°, incontriamo di nuovo il ghiaccio. Siamo entusiasti: per quattro interminabili lunghezze di corda saliamo sulle punte dei ramponi, mordendo la superficie luccicante della parete con i nostri attrezzi.

            Questo genere di salita può sembrare monotono perché, di fatto, si tratta di ripetere continuamente i medesimi gesti; in verità, a parte il fatto cha la variabilità della materia glaciale può intervenire da sola a spezzare l'identità assoluta dei movimenti, costringendo l'alpinista ad adeguarsi ai mutamenti intervenuti, più che di monotonia io parlerei di ritmo, di un ritmo lento e cadenzato, diverso certamente da quello di una salita su roccia, ma dotato di un suo fascino particolare. A me piace, quando tutto intorno è tranquillo, lasciarmi catturare da quel ritmo costante che favorisce l'immersione in se stessi e lascia emergere dall'interiorità sensazioni fisiche e psichiche che la vita di ogni giorno spesso comprime: perché sulla parete io credo che le nostre sensazioni e le nostre emozioni vivano una vita propria, più profonda e più vera, come se potessero dilatarsi e manifestarsi con più libertà nella loro dimensione più autentica.   

            Il richiamo alla realtà più normale è garantito dalla fatica: dopo un po' i polpacci fanno male e devi fermarti almeno un secondo per farli riposare; alla fine del tiro bisogna attrezzare la sosta, scavare in gradino nel ghiaccio, che quando è vivo è anche duro; su una parete nord il freddo è di casa e quando si mette a fare sul serio ti morde i piedi e le mani, ti scuote di brividi il corpo.

            Sulla cima arriviamo soprattutto abbastanza stanchi perché la salita ci aveva impegnati di più di quelle che avevamo alle spalle; non possiamo abbandonarci alla gioia o a slanci contemplativi: la discesa fino al bivacco e poi fino al paese è ancora lunga. La soddisfazione arriva a poco a poco, quando la macchina sta già scivolando sull'autostrada e la mente ritorna all'esperienza vissuta. Questo pare essere considerato il lato negativo dell'alpinismo classico e ad esso viene contrapposto un modo di vivere la montagna che non crei alcuna dissociazione tra momento dell'azione e soddisfazione. La critica prende di mira soprattutto certe manifestazioni estreme dell'alpinismo classico e la salita della nord della Ciamarella, come le altre che ho percorso prima e dopo, non può certo essere rubricata da queste, però qualcosa mi ha insegnato. Intanto la fatica e la sofferenza sono manifestazioni del nostro essere umano al pari della gioia e del piacere e come tali hanno qualcosa da dirci su noi stessi; inoltre non è affatto detto che il piacere consista sempre e solo nell'immediato piacere: è facile constatare che talvolta ci sono cose che, costituendo per noi un'aspirazione importante, ci trovano disponibili a qualche sacrificio nel presente per poterle ottenere successivamente. In realtà non esiste una risposta valida sempre e per tutti: la risposta autentica è dentro ognuno di noi, nella libertà delle sue scelte, nella sua capacità di viverle e di comunicarle senza costruire barriere o percorsi obbligati, senza voler dare definizioni assolute di cosa sia o di cosa non sia questa straordinaria attività che chiamiamo alpinismo.

            Le impressioni vissute sulla Ciamarella chiedevano di potersi manifestare di nuovo e al più presto. Incominciammo a parlare del Gran Paradiso e della sua bella parete nord-ovest: avremmo potuto salirla in occasione della gita del Cai che stavamo organizzando proprio al Vittorio Emanuele. Con il posto prenotato l'idea di dormire comodamente in quel rifugio sempre sovraffollato ci appariva persino allettante. La notte sarebbe stata comunque breve e per godercela tutta andammo a dormire assai presto.

            All'una siamo già in piedi, intenti a prepararci una bella colazione. La notte è magica: dietro la cupola ghiacciata del Ciarforon si affaccia lentamente la luna che sale nel cielo e riflette i suoi raggi bianchissimi nell'acqua appena increspata del laghetto del Montcorvé. Intorno si diffonde quella luce strana della notte lunare, col suo tono azzurrino uniforme e le ombre scurissime e nette. Le pile frontali non ci servono affatto e sulla morena procediamo spediti verso la nostra parete. Lontano, ad ovest, il cielo è meno limpido, ma non siamo preoccupati. Sul ghiacciaio ci immergiamo in una realtà di sogno: alla luce della luna i seracchi hanno riflessi d'azzurro che si perdono nel nero profondo dei crepacci vicini; silenziose incombono sopra di noi, come giganti addormentati, le pareti del Piccolo e del Gran Paradiso e in alto le illumina il riflesso più chiaro della neve che biancheggia di luce metallica. Il cuore sta come in attesa, sospeso sul lento fluttuare dei nostri respiri, timoroso che si rompa l'incanto che lo attornia: vorrei esprimere a Carlo l'emozione che provo, ma la mia voce mi suona un po' strana in quel silenzio che pare d'ovatta.

            Incontriamo altre tre cordate che hanno bivaccato presso il Rifugio Chabod, in costruzione da tempo: due sono già impegnate nel superamento della seconda crepaccia. Fin lì non dobbiamo affrontare alcuna difficoltà e procediamo di conserva camminando sulla neve dura e ancora poco inclinata. Il problema è costituito dal labbro superiore del crepaccio, che oppone un muro piuttosto difficile; siamo quindi costretti a spostarci molto a sinistra, lontano dalla direttrice della vetta, dove l'ostacolo si fa più abbordabile. Oltre ci attende una bella parete di ghiaccio vivo alta più di quattrocento metri.

            Mentre saliamo sento crescere dentro di me, sempre più vivo, il sentimento della paura. E' una paura che non nasce da me o dal mio procedere, che infatti continua tranquillo e sicuro: è il mondo intorno che si è fatto minaccioso. Ad ovest, nel chiarore del giorno ormai sorto, la perturbazione si è ingrossata e ormai avvolge le cime alle nostre spalle, avanzando molto velocemente; un sasso dall'alto precipita e sibilando sfiora la cordata impegnata poco sotto di noi mentre altri sassi incastrati ancora nel ghiaccio della parete ci rammentano che altri potrebbero staccarsi e cadere. Non avevo mai provato questa paura che nasce dal senso della propria assenza di difese contro la natura che, così dolce sino a qualche ora prima, si rivela terribile: ci si sente in balia degli eventi, mentre si cerca di pensare al da farsi.

            Anche se poi, nella tranquilla realtà della propria casa, il ricordo di quei momenti diventa persino  piacevole, al momento la cosa migliore fu l'eclissarsi veloce di quella paura: una serie di filate di corda diagonali verso destra ci riporta sulla direttrice della cima, su un magnifico pendio di ghiaccio al sicuro da ogni possibile sorpresa dall'alto, e intanto la perturbazione ci ha raggiunto e ha mostrato il suo vero volto, decisamente meno terribile di quanto potevamo pensare vedendola in lontananza avvolgere le cime e i fianchi delle montagne. Solo nubi e vento ci avvolgono correndo velocissimi lungo la parete e sulle creste: è un gioco fantastico e rapidissimo: immagini di azzurro e di nubi si fanno e disfanno sopra di noi come in un caleidoscopio infinito. Ora che siamo tranquilli possiamo farci rapire da quel gioco della natura e sentircene una parte, piccola ma viva. L'unico lato negativo, il richiamo alla dura realtà di una nord, sono le folate cariche di cristalli di ghiaccio che talvolta ci investono: la parete sembra allora un'immensa cascata d'acqua spumeggiante o il ponte di una nave battuto dalle ondate del mare e tutto sarebbe anche molto bello se i cristalli di ghiaccio non trovassero il modo di infilarsi nella giacca a vento con effetti assai meno gradevoli.

            All'altezza del secondo seracco, verso l'uscita, potremmo spostarci a sinistra, come le cordate che ci precedono, sul pendio che corre vicino alla crestina della via Cretier, ma il ghiaccio di vetro verde-azzurro che si impenna leggermente davanti a noi, proprio vicino al grande seracco, ci attira con la forza irresistibile del suo fascino luccicante. Questo tratto è splendido e ci impegna davvero; rimpiango solo di non aver scattato fotografie, ma le condizioni del tempo mi avevano fatto tenere la macchina nello zaino e a quel punto non era il caso di fare acrobazie per tirarla fuori. Eppure sarebbe stato bello ritrarre l'immagine di Carlo che sembrava emergere dal ghiaccio, stagliandosi contro il vuoto sottostante, creato per effetto ottico dal cambiamento di pendenza della parete; perché una fotografia non potrà mai ritrarre la profonda sensazione di libertà che in quei momenti si prova, quando l'immagine del tuo compagno si associa nella tua mente a quella di un gabbiano che plana sulle onde del mare o a quella di un'aquila che si libra nel vento; ma pure, quando la rivedi, una fotografia ti aiuta a ricordare, richiamando dal fondo dei tuoi pensieri le sensazioni che giacciono quasi assopite sotto lo strato delle preoccupazioni quotidiane.

            Intanto il tempo è ulteriormente mutato e ora le nubi più fitte ci avvolgono costantemente; ci muoviamo come fantasmi lungo l'ultimo tratto di parete verso la cima orami a portata di mano. In vetta non c'è nessuno. Anche noi ci fermiamo pochissimo prima di abbandonarci alla discesa lungo la facilissima via normale, spazzata da un vento freddo e ancora molto forte; qui incontriamo altri alpinisti che scendono e, senza altri problemi che qualche scroscio di pioggia, chiudiamo la nostra giornata.

            Poco tempo dopo fu la volta della parete nord-est del Lyskamm orientale. Altissima e possente, non è stata l'ultima delle pareti nord che ho percorso; anche se da allora molte cose sono cambiate, ho continuato e continuo a guardare le pareti innevate con l'occhio appassionato di chi le vuole salire. Nessuna stagione sarà più intensa di quell'estate del 1984, almeno sul ghiaccio, eppure ogni anno faccio e rifaccio programmi e qualche cosa ancora combino, anche di molto bello. Ancora nessuna salita però mi ha dato quello che invece mi ha dato la nord-est del Lyskamm.

            Allora, proprio alla fine di quel luglio iniziato alla grande, sul piano dei puri dati tecnici, l'unica  differenza che a me e a Carlo sembrava di cogliere tra la nord-ovest del Gran Paradiso e la nord-est del Lyskamm erano "solo" cento metri di dislivello in più. La cosa non ci preoccupava più di tanto perché ci sentivamo allenati e sicuri. Così, in una giornata non precisamente bella, scendiamo dalla seggiovia nei pressi del Col d'Olen e iniziamo a salire verso il Rifugio Gnifetti attraverso il Passo dei Salati, lo Stolemberg, il Colle delle Pisse e il classico percorso lungo il Ghiacciaio di Punta Indren. A sera le condizioni atmosferiche migliorano decisamente e noi ce ne stiamo un po' al sole, dietro al rifugio, sui massi lisciati che dominano la seraccata del Ghiacciaio del Lys. Una colata di seracchi è sempre una visione particolare, in cui la bellezza di quelle complesse strutture glaciali si mescola all'orrore delle nere voragini dei crepacci e alla musica tetra dei crolli interni che sconvolgono il ventre azzurro del ghiacciaio. Qui la montagna difende i suoi segreti più intimi e mi piace pensare che ci siano luoghi, così vicini e insieme così lontani, dove gli uomini non potranno mai giungere. Finché rimarranno spazi di mistero, rimarranno spazi per l'avventura e spazi di felicità; quando tutto sarà segnato, sistemato, attrezzato, imbrigliato dai cavi delle seggiovie e delle funivie, raggiunto da strade, da rifugi, da alberghi, potremo buttare in un fiume la chiave che apriva il cassetto segreto della nostra fantasia.

            Lasciamo il rifugio prestissimo nella notte e ci incamminiamo lungo la pista che sale al Colle del Lys illuminata dalle pile frontali. Il buio è profondissimo, il cielo è pieno di stelle: siamo da soli, su questo grande ghiacciaio, ad attraversare il silenzio scuro della notte. Anche questo avvicinamento ha il suo fascino indimenticabile: il mondo ci si offre nella sua dimensione meno consueta, pieno di mistero, di ombre dense e lunghe, di incertezze.

            Quando raggiungiamo il colle, la luce del giorno ha appena iniziato a disegnare il profilo delle cime del Rosa, ma più lontano, verso i Lyskamm, buio e silenzio ancora dominano il mondo. Pensavamo di vedere la luce delle pile di qualche cordata proveniente dalla Svizzera, ma non si vede proprio nessuno. Ora ci sentiamo davvero da soli, quasi persi in un universo di ghiaccio, e la parete nord-est del Lyskamm ci appare immensa, sproporzionata: abbiamo per una attimo la percezione esatta della dimensione dell'uomo, quella dimensione che le metropoli in cui ci ammassiamo vivendo uno addosso all'altro ci fanno purtroppo dimenticare. Così ci dimentichiamo anche che la terra è una grande madre, che l'oceano è un padre infinito: se abbiamo perso questa visione delle cose, non possiamo stupirci di fronte alla distruzione che stiamo operando ai danni della natura.

            Aggiriamo alcuni grossi crepacci sotto il Colle del Lys e scendiamo lungo il ghiacciaio di Grenz,  raggiungendo la base della parete che costeggiamo fino a trovare un punto in cui superare la crepaccia terminale. Quando lo troviamo non esitiamo ad approfittarne e balziamo oltre, iniziando a salire verso destra per andare a prendere la giusta linea di salita della via Welzenbach. La pendenza è subito sostenuta, ma la superficie della parete è di neve dura per cui possiamo procedere veloci. La cosa non dura molto e presto ci troviamo impegnati su ghiaccio lucidissimo e duro. Sopra di noi incombono seracchi enormi e minacciosi; più in basso la superficie del ghiacciaio è cosparsa di blocchi di ghiaccio precipitati dall'alto: scopriamo con ben poca gioia di essere proprio sulla traiettoria di eventuali scariche; avremmo dovuto attaccare più a destra, ma ormai il gioco è fatto e dobbiamo accettarne le conseguenze: procediamo il più velocemente possibile, ma non possiamo rinunciare alla sicurezza di un rinvio intermedio e di una sosta ben allestita. Il sole investe la parete e illumina i grandi seracchi: così candidi sono persino molto belli, ma anche più pericolosi. Finalmente però, ad un terzo della salita, raggiungiamo il pendio della via Welzenbach e possiamo tirare un sospiro di sollievo.

            Quando ricominciamo a salire constatiamo che il terreno è mutato: il ghiaccio è meno duro e talvolta c'è anche la neve; la progressione ne risulta facilitata e ciò sarà davvero la nostra fortuna  perché, ce ne accorgeremo bene alla fine, se la parete fosse stata tutta dannatamente di ghiaccio durissimo come all'inizio i problemi per noi sarebbero divenuti alquanto seri. Comunque questa parte mediana della salita ci offre momenti bellissimi: sopra di noi il compagno che guida si staglia contro il cielo di un blu intenso e profondo, lungo uno scivolo di neve che pare un’immensa scala gettata tra la terra e l'altezza infinita; intorno a noi, ormai non più minacciosi, i seracchi e le rocce brillano al sole; sotto, la parete si apre nella sua grandiosa e selvaggia bellezza, sprofondando nel ghiacciaio ancora immerso nel buio.

            Allora ho sentito che quella parete aveva un respiro, un lento e solenne respiro; ho sentito che quella montagna aveva un'anima e un pensiero; e ho capito che quel pensiero non poteva essere né buono né cattivo: la parete viveva nell'eterna e immobile indifferenza, come gli dei di Epicuro. Noi passavamo piccoli piccoli dentro quell'indifferenza infinita: non avremmo vinto nessuna parete, perché la parete non stava combattendo contro di noi, perché la parete sarebbe rimasta nella sua imperturbabilità anche dopo il nostro passaggio. Se c'era qualcosa da vincere era dentro di noi, ed era la nostra debolezza, o la stanchezza, che cresceva ad ogni tiro di corda dominando ogni fibra del corpo, insinuandogli il desiderio vago di fermarsi, di dire basta a quella fatica sempre crescente.

            Oltre l'ultimo seracco constatiamo che, purtroppo, le nostre previsioni sulla distanza che ci  separa dalla cima erano troppo ottimistiche: dovremo ancora salire diversi tiri di corda resi faticosissimi e un po' insicuri dalle condizioni del manto nevoso, che a tratti è molle e cedevole. Sulla vetta arriviamo stanchissimi davvero. Non mi sentivo affatto un vincitore: là sotto il gigante immenso di ghiaccio si faceva accarezzare dal sole caldo del giorno; avrebbe anche potuto inghiottirci, assorbirci: eravamo stati suoi, dentro di lui, immersi nel suo infinito respiro. Eravamo scesi nel suo grande cuore, quasi scivolando sul pendio ripido della nostra debolezza di uomini. Non avevamo vinto: avevamo solo trovato la forza di fare quel passaggio attraverso il cuore ghiacciato della montagna senza scivolare fino in fondo al pendio della nostra stanchezza.

            Quella sera non saremmo riusciti a tornare in tempo al Gabiet per l'ultima corsa della cabinovia e così siamo rimasti al Rifugio Gnifetti. Di notte il maltempo raggiunge il gruppo del Monte Rosa e al mattino nevica; un forte acquazzone ci accompagna in parte durante la discesa e tutto, intorno, mi sembra più grande. Queste montagne mi hanno colpito proprio per la loro grandiosità e intanto mi hanno aiutato a pensare. Mi sono chiesto poi se le mie riflessioni non fossero solo il frutto della fatica e della paura provata sotto i grandi seracchi. Forse più forti e più allenati saremmo passati veloci e indifferenti e in vetta ci saremmo sentiti i vincitori della nord dei Lyskamm. Eppure io non credo alla morale dei vincitori: i superuomini non esistono, sono solo la maschera di un'illusione di potenza superficiale e cieca. Ci sono solo uomini aperti all'avventura, certamente più forti, molto più forti di me e dei miei amici; e ci dovrebbero essere solo uomini coscienti del loro posto e della loro dimensione nell'organismo infinito del mondo, uomini senza presunzioni, uomini pieni di amore e disponibili ad immergersi nel gioco dell'universo per conoscersi meglio e per essere pienamente se stessi.

            Tornato dai Lyskamm sono salito con mia moglie e alcuni amici al Pian di Verra e al Lago Blu. L'aria era limpidissima, il cielo terso e il sole, passata rapidamente la perturbazione, scaldava dolcemente l'atmosfera; ero molto contento e, mentre gli altri si riposavano sulle sponde del laghetto, sono salito quasi di corsa sul filo della morena fino al Ghiacciaio di Verra. Forse un poco di vento o forse l'affanno per la salita troppo veloce mi spingevano una lacrima agli occhi, ma dentro mi sentivo davvero un poco commosso. Intorno a me grandi montagne di neve e di roccia disegnavano i loro profili contro l'azzurro intenso del cielo; il ghiacciaio si spezzava in vaste fiumane di seracchi che si immergevano nel solco profondo della morena; in fondo il torrente rombava lattiginoso  prima di scivolare più tranquillo tra il verde chiaro del Pian di Verra; la perla cerulea del Lago Blu spiccava lucente tra il grigio opaco dei residui morenici in cui è incastonata; più lontano, oltre il profilo di alberi che chiude il pianoro, la valle si allungava rigogliosa di pinete e di prati; all'orizzonte qualche gioco di nubi rompeva la limpidezza del cielo sopra indistinte fughe di monti verso la pianura. Dentro di me ho sentito di amare quel mondo così sorridente; eppure capivo perfettamente che quel sentimento, che in fondo era gioia e felicità, aveva in sé qualcosa di malinconico e una vena profonda di nostalgia.

            Ho ripensato ad un mattino nel Parco del Gran Paradiso; era l'alba e me ne andavo da solo verso il laghetto del Loson; nell'ombra ho intravisto alcuni giovani camosci pascolare tranquilli e mi sono nascosto. Poi è sorto il sole e nella luce dorata e appena tiepida i giovani animali hanno sospeso il loro brucare, alzando lo sguardo verso l'astro che li inondava di vita. Ho capito allora che esiste qualcosa come un'armonia e che ogni cosa ed ogni animale ci vivono dentro immersi in modo totale. E ora so che la mia nostalgia è nostalgia di quel tutto che vive e che palpita intorno, ma col quale solo talvolta riesco ad entrare in sintonia: ho nostalgia dell'incoscienza che vibra nelle ali della farfalla, nel pascolo del camoscio, nel canto degli uccelli. Vorrei poter guardare il sole sorgere dietro al monte ed essere felice solo per questo; vorrei sentire tutta la magia di un raggio di luna nel folto del bosco e vibrare di amoroso tremore; vorrei poter ascoltare il sussurro del vento tra le cime degli alberi e sentire anch'io la dolcezza del naufragio nel mare vasto dell'essere; vorrei dimenticare la mia contingenza, il mio essere qui ed ora, gettato tra la vita e la morte, vorrei dimenticare il mio destino di individuo mortale. Ma sono un uomo e sono costretto a pensare: ho coscienza di me, dei miei limiti, del mio nascere e del mio morire. Ma sono un uomo e sono costretto a scegliere, a sopportare il peso delle mie scelte, a incamminarmi lungo strade spesso nuove e di cui non scorgo che a malapena un tratto. Non ho il dono dell'incoscienza e continuo a farmi domande, a trovare riposte che non placano mai la sete del mio chiedere. Così continuo ad andare in montagna inseguendo il sogno di una risposta che mi dia la quiete, lasciandomi dolcemente cullare dall'illusione di trovarla, fermandomi talvolta amareggiato a considerare che, forse, non la potremo mai stringere con sicurezza tra le mani.

 

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