ALLA FINE(una riflessione sulla morte) |
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Chi mai vide per l’ultima volta i raggi del Sole, chi salutò la Natura per sempre, chi abbandonò i suoi diletti, le sue speranze, i suoi inganni, i suoi stessi dolori senza lasciare dietro a sé un desiderio, un sospiro uno sguardo? Le persone a noi care che ci sopravvivono, sono parte di noi. I nostri occhi morenti chiedono altrui qualche stilla di pianto, e il nostro cuore ama che il recente cadavere sia sostenuto da braccia amorose, e cerca un petto dove trasfondere l’ultimo nostro respiro.
(Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis)
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Ho
visto mia madre morire. Ho visto la sua vita spegnersi lentamente in una
notte d’inverno senza stelle. Il cancro se l’è portata via ancora
giovane: aveva cinquantaquattro anni.
La
malattia, un tumore al seno, l’aveva colpita per la prima volta molti
anni prima. Ce lo aveva detto lei stessa, con quella forza stupenda che
la accompagnerà fino alla fine della sua breve avventura terrena. Dopo
l’intervento chirurgico le cose si misero bene; passarono alcuni anni
e cominciavamo a cullarci nell’idea che quel capitolo fosse
definitivamente chiuso. Invece ecco di nuovo il tumore, l’ospedale,
l’operazione. Questa volta le cose si rivelarono subito più
complicate: l’intervento non era stato sufficiente e mia madre dovette
affrontare il calvario della chemioterapia. Intanto continuava a
lavorare nella scuola con la passione e l’amore di sempre, guardando
con fiducia al futuro, trasmettendoci forza e serenità.
Il
tumore però non volle farsi sconfiggere. Si ripresentò alle ossa e le
colpì le vertebre. Mia madre affrontò le nuove terapie con il
coraggio, la forza e la fede che dall’inizio l’avevano sostenuta, ma
il corso della malattia era ormai segnato negativamente. A novembre
dovette essere ricoverata in ospedale: le vertebre malate premevano sul
midollo spinale, provocandole l’insensibilità e l’immobilità delle
gambe.
Un
giorno andai a trovarla; dovevo farlo insieme e mio padre e alle mie
sorelle, ma ero già in giro e così arrivai, da solo, un po’ prima
degli altri. Mia madre mi accolse piangendo. Singhiozzava disperata,
inconsolabile. E’ stata l’unica volta che l’ho vista così. Non
l’angosciava il suo male, ma il dover abbandonare la sua famiglia, suo
marito e i suoi figli. Potevo solo ascoltarla, col cuore lacerato dalla
pena, tenerle le mani, carezzarle i capelli. Poi si riprese e quando
arrivarono gli altri li accolse serena: così era mia madre di fronte
alla morte che, forse, si era già affacciata a disorientarle i
pensieri.
Quando
tornò a casa, poco prima di Natale, poteva di nuovo muovere le gambe,
che però non la reggevano. Guardava ancora avanti negli anni. Su una
sedia a rotelle, ma ancora tra voi, per qualche anno: così ci diceva.
Il
ventotto dicembre festeggiammo i trent’anni del suo matrimonio con papà.
Il giorno dopo salii con Rosanna a San Pietro di Civate: sul prato
davanti all’antica abbazia mi abbandonai al ricordo. Nel giugno
dell’anno prima eravamo stati lassù con mia madre e con la sua classe
(era maestra elementare). Quei giorni non sarebbero più tornati: li
sentivo sepolti in un’eternità lontanissima, mentre pensavo a mia
mamma distesa sul letto, colpita da una malattia che ce l’avrebbe
strappata crudelmente.
Tutto
accadde più velocemente del previsto; le cose cominciarono a
precipitare; il tumore si estendeva. Non c’era più nulla da fare e le
previsioni dei medici si facevano sempre più corte. Mia madre non si
alzava più. Il suo corpo si assottigliava, le forze l’abbandonavano,
ma il suo spirito era forte. Serenamente pregò con Don Rainaldo quando
venne per l’unzione degli infermi. E serenamente, qualche giorno prima
di morire, mi disse parole che serbo nascoste nel cuore e mi indicò il
vestito con cui voleva affrontare il suo ultimo viaggio.
Poi,
una mattina, entrò in coma. I suoi occhi si chiusero, le sue labbra non
ci dissero più nulla, le sue mani non si mossero più. Solo il respiro
ci diceva che era viva.
Per
tutto quel giorno le restammo vicini, premurosi, attenti, concentrati
solo sulla sua sofferenza. Alla sera, sul tardi, il suo respiro si fece
più lento. Io me ne stavo seduto su una poltrona, davanti al suo letto.
Alle mie spalle, dietro la grande finestra della stanza, nessuna stella
brillava nel cielo invernale coperto di nubi. Tremavo.
Il
ritmo dei suoi respiri si fece ancora più lento e più lunghi divennero
gli intervalli tra un respiro e l’altro. Poi fu silenzio, un lungo
silenzio. Non respirò più e il suo cuore cessò di battere. Restammo
qualche istante attoniti, stupiti da quel silenzio che di colpo aveva
riempito la stanza. Il suo breve viaggio terreno era finito.
Adriano
è morto che non aveva ancora quarant’anni. Se ne è andato
precipitando durante la discesa dal Becco di Valsoera in un pomeriggio
d’estate, mentre le nebbie della pianura avvolgevano le montagne
ingolfandosi nei valloni del Canavese. Aveva salito la via
Mellano-Perego: una grande via storica su una grande montagna.
Era
forte Adriano. Lo avevo conosciuto vent’anni prima. Ci capimmo subito
e diventammo amici; condividevamo tutto: la montagna, le ragazze, la
passione politica e religiosa, gli spettacoli di Dario Fo, i cristiani
per il socialismo, l’impegno in parrocchia, il doposcuola per aiutare
i figli delle famiglie più povere, memori delle letture di Don Milani.
Tra
tutte queste esperienze, la passione per la montagna era un po’ come
un cemento: rafforzava la nostra amicizia, la nutriva, la faceva
crescere. Insieme percorremmo un lungo pezzo di strada lungo il cammino
della vita, forse il pezzo più importante, quello che dalla giovinezza
informe ti trasforma in un uomo maturo.
Negli
ultimi tempi i nostri rapporti si erano un poco allentati, anche in
montagna. Adriano era molto più forte di me e inevitabilmente i nostri
sentieri tendevano a dividersi: aveva trovato nuovi compagni di cordata
con cui, nell’ultima estate, l’anno prima della sua morte, aveva
inanellato una serie straordinaria di salite sulle pareti delle
Dolomiti. Così quel giorno di luglio io non ero con lui. Ero molto più a nord, nel cuore delle montagne svizzere. Avevo salito la cresta sud del Salbitschijen ed ero felice. Con i miei compagni di cordata mi godevo il sole del tardo pomeriggio davanti al rifugio; brindavamo con vino di mele, dolce e leggero, a quella salita che era rimasta per tanto tempo solo un sogno. Adesso il sogno era diventato realtà e volevamo contemplarla ancora un po’ prima di tornarcene alla macchina, al viaggio di ritorno, alla realtà di tutti i giorni dimenticata nel gioco dell’arrampicata su quelle placche perfette.
Il
mattino dopo mi stavo crogiolando ancora nel letto quando Tiziano mi
comunicò singhiozzando la terribile notizia: “Adriano è morto; è
precipitato in Valle dell’Orco”. Mi assalì un doloroso stupore; non
avrei voluto crederci, ma non poteva essere uno scherzo. Piansi. Piansi
tantissimo.
A
tarda sera io e Carlo decidemmo di salire a Locana per passare
l’ultima notte con lui, vicino all’obitorio del cimitero dove il suo
corpo era stato trasportato in attesa dell’arrivo della bara.
Rimanemmo svegli fino alle tre, seduti in macchina, davanti al cancello
del cimitero, parlando come non avevamo mai fatto della vita e della
morte, di Adriano e della nostra amicizia. Al mattino arrivarono gli
uomini delle pompe funebri. Mi affacciai all’obitorio e un terribile
odore di morte mi colpì. Non hanno lasciato che mi avvicinassi.
Ricordalo com’era, mi han detto. Ho ancora negli occhi l’immagine
del suo corpo adagiato su quel tavolo di pietra. Era così innaturale,
con il ventre un po’ gonfio, i vestiti strappati dai colpi sulla
roccia, le gambe composte ma quasi disarticolate, un braccio coperto di
lividi. Le ferite profonde, quelle che lo avevano ucciso, avevano
sfigurato la parte del suo corpo e del suo viso che non ho potuto
vedere. Chissà, forse è stato meglio così.
Ricordo
un’escursione in Val Grande, qualche anno più tardi. Stavamo
percorrendo il sentiero che risale da Ponte Casletto a In La Piana. E’
la via più impegnativa, forse, ma anche la più bella, quella che ti
porta dentro il cuore selvaggio della valle, quella che ti immerge nel
suo respiro profondo.
Nonostante
la fatica, mi sentivo leggero; nemmeno lo zaino pesante mi dava fastidio
e a tratti quasi correvo su quella traccia sottile. Forse è per questo
che è accaduto: ad un certo punto, per motivi che ancora non riesco a
spiegarmi, ho sentito il vuoto sotto i piedi e come in un lampo mi son
sentito volar giù, lungo il breve ripidissimo prato, verso il salto di
rocce a precipizio sul torrente. Ma c’era lì un piccolo faggio e mi
ci sono aggrappato quasi del tutto incoscientemente; mi sono fermato e
con un balzo sono tornato sul sentiero davanti ai miei due compagni che
mi guardavano stralunati.
Al
momento non ci ho pensato, anzi mi son messo di nuovo davanti al gruppo,
a camminare deciso, ad affrontare tranquillamente ogni difficoltà, a
risolvere i dubbi dell’itinerario muovendomi sicuro su quelle balze
sempre ripide e spesso esposte sul torrente.
Trascorremmo
la notte all’addiaccio, sull’unico ripiano decente che s’incontra
tra il guado dell’Arca e l’Alpe In la Piana. Gli alberi avevano
ormai perso quasi tutte le foglie e i rami disegnavano come un nero
ricamo contro il cielo che lentamente si faceva più scuro. Sdraiato nel
sacco a pelo, guardavo le stelle accendersi fioche. Mi sentivo felice e
il ricordo dello scampato pericolo riusciva solo in parte a scalfire la
mia pace interiore.
Il
mattino successivo, mentre proseguivamo il cammino verso In la Piana,
notammo qualcosa di strano: una squadra di uomini con i caschi bianchi
si muoveva più in basso di noi, su una cengia boscosa esposta sul
fiume. Più tardi un elicottero si levò dal basso e uscì rapido dalla
valle: era successo qualcosa. Pensammo a pescatori in difficoltà, ma
non a qualcosa di peggio. Quando arrivammo alla Colma di Premosello,
scoprimmo la verità: una donna era morta in Val Grande. Stava guidando
un gruppo lungo un itinerario assai impegnativo ed era precipitata in un
canalone, morendo sul colpo.
La
tristezza si impadronì di noi e proseguimmo silenziosi verso valle.
Improvvisamente il pensiero della mia scivolata tornò ad ingombrare i
miei pensieri. Avrei potuto morire. Come quella donna. In una bella
giornata d’autunno, in un posto bellissimo, un piccolo errore avrebbe
potuto mettere fine alla mia vita. Improvvisamente pensai alla mia
bambina, che allora aveva sette anni. Il suo piccolo volto sorridente mi
veniva davanti agli occhi mentre pensavo alla mia fine. Un’onda di
commozione iniziò a montare dentro di me. Mi appoggiai ad un albero e
cominciai a piangere. Singhiozzavo. Il conforto degli amici mi aiutò a
superare quel momento, ma il viaggio di ritorno fu silenzioso per tutti.
Non riuscivamo proprio a gioire e la nostra impresa svaniva nei pensieri
neri che ingombravano la nostra mente.
La
montagna è severa, come dice un manifesto del Soccorso Alpino? Può
darsi, ma spesso perdona errori clamorosi e imprudenze disastrose; altre
volte condanna senza appello la più piccola distrazione, non solo i
comportamenti incoscienti. La montagna è pericolosa, come pensa spesso
la gente? Può darsi, ma è forse più pericolosa delle strade dove
migliaia di persone perdono la vita ogni anno? O delle nostre città? O
di certi luoghi di lavoro?
Abbiamo
forse un destino che deve compiersi senza che noi possiamo fare qualcosa
per contrastarlo? Non amo credere al destino e neppure riesco a pensare
agli “imperscrutabili disegni di Dio”. Non ce la faccio. Quando
penso a Dio, penso a un Dio che ci ama, che soffre con noi, che ci consola
e non riesco proprio a
immaginarlo simile alle Parche, che tessono e tagliano il filo della
nostra vita secondo un disegno preordinato. Il fatto è che siamo
semplicemente creature fragili. La nostra pelle non è d’acciaio come
quella di Orlando e non siamo stati immersi nelle acque di un fiume che
rendono invulnerabili come Achille. Siamo creature deboli e un caso
sfortunato, anche il più insignificante, può infrangere le nostre
difese fino ad ucciderci. Il nostro corpo non è stato fatto per vivere
l’eterno, ma solo per essere un umile figlio del tempo: questo io
sento.
So
comunque che la morte in montagna non è “una bella morte”. Invece
è la cosa che spesso si dice quando uno muore in montagna: “è morto
nei luoghi che amava”, “è morto dove avrebbe voluto morire”. Non
ci credo. Forse qualcuno va in cerca di questo. Io no. In montagna cerco
la vita e anche Adriano cercava la vita. La cercava anche quella donna
che ha terminato i suoi giorni precipitando in un canale della Val
Grande. Credo che tutti vadano in montagna a cercare la vita, la
bellezza, la gioia, la fatica, magari la grande impresa, la gloria, la
fama. Non la morte. E’ un rischio che talvolta si mette in conto, ma
non per questo lo si ricerca. A modo suo, ognuno cerca la sua sicurezza.
Ognuno vuol tornare alla sua tenda, al rifugio, alla sua casa, agli
affetti.
La
morte in montagna non è una bella morte. E’ una morte orribile, come
è orribile la morte che ti piomba addosso all’improvviso, come un
ladro o un assassino, strappandoti alla vita senza annunciarsi,
lasciando i tuoi amici e coloro che ti amano in un dolore esterrefatto e
inconsolabile. Il luogo della morte non la rende più bella.
Da
un po’ di tempo ho cominciato a pensare alla morte di mia madre in una
maniera diversa. Affascinato dai miei maestri spirituali, dalle letture
di Leopardi, di Heidegger, di Nietzsche e di Michelstaedter, colpito
dalla lucida serenità, dal coraggio, dalla forza con cui mia madre era
andata incontro all’evento della sua fine, dalla calma con cui mi
aveva rivolto le ultime parole prima di chiudersi per sempre nel
silenzio degli ultimissimi giorni, avevo guardato alla sua morte come a
qualcosa di straordinario, idealizzandola come un insegnamento di vita.
Forse avevo fatto troppa filosofia sulla sua morte, cogliendo solo un
aspetto, certo sublime, di quella tragedia. Ma non avevo ancora
trent’anni; mi ero laureato da poco e vivevo ancora immerso
nell’ideale. Da allora è passato molto tempo; la mia età si avvicina
a quella che mia madre aveva al momento della sua morte. Ora vedo le
cose diversamente. A volte, quando penso a lei e a quei suoi ultimi
mesi, sento qualcosa di amaro stringermi il cuore. Cosa avrà pensato
vedendo la sua vita spegnersi così presto? Cosa avrà pensato vedendo i
suoi sogni svanire? Solo adesso mi rendo conto di quello che deve aver
significato, per lei, il finire della vita.
Mi
sento ancora giovane e faccio ancora progetti per il futuro: mia madre
non ha avuto tutto questo e adesso sento più forte il dolore della sua
fine. Ma se guardo lontano e mi penso più vecchio, sento anche che,
alla fine, quello che vorrei è poter salutare chi amo e chi mi ama:
come mia madre. Quello che vorrei è poter guardare un attimo indietro,
e sospirare.
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